Se davvero la Storia è quella scritta dai popoli, non solo quella scritta dalle generazioni dei re, allora anche i popoli di Calabria e Sicilia sono vittime di una grave omissione: essi mancano nel racconto ufficiale, se non per accenni a quelle poche rivolte sedate ora nel sangue ora da qualche lungimirante invasore; non esistono alla corte di nessun sultano arabo, né a quella di Federico II; cancellati dalla storiografia ufficiale, essi hanno continuato a vivere subendo un sacrificio che, ancora con le guerre mondiali, le ondate di emigrazione verso l’America e verso il grande Nord industrializzato, li ha costretti al silenzio. Calabria e Sicilia hanno guardato gli avvenimenti – continuano ancora a farlo ormai come tutti i popoli della Terra – così come si guarda oggi uno schermo televisivo, ignari del ruolo che ogni essere umano, come ogni gruppo sociale, incarna nello svolgimento della Storia. Quel sacrificio e quel silenzio si nascondono ancora nella violenza della lingua, nelle parole degli occhi, nelle uniche armi, le braccia, che fendono l’aria e cancellano i limiti, le prigioni, che lo stesso parlare costruisce.
Con il nostro spettacolo non vogliamo certamente ricostruire, sanare o emettere giudizi, vogliamo soltanto rappresentare il senso di quel sacrificio e far sì che tutti vi si riconoscano, perché in esso sono contenuti i germi di ogni sofferenza mai narrata, del silenzio che, se sicuramente tace i nomi dei singoli, dà, allo stesso tempo, la forza per una voce più potente, linguaggio dell’anima, dell’anima di un popolo, linguaggio di un Sud, di tutti i Sud del mondo, al quale, ricordando le parole di Rosso di San Secondo, tutti guardiamo, perché esso custodisce e rappresenta le radici di ogni essere umano.
Lo spettacolo ha inizio con un prologo durante il quale, al senso di una mitologia, delle mitologie che abitavano le nostre terre, si fondono i suoni delle lingue che nascevano per commistione sonora, così il grecanico o il gallo lombardo, e ancora il racconto muto del sacrificio imposto non solo dalle generazioni di invasori, ma anche da politiche errate, causa di quel degrado che, partendo dalla smitizzazione del luogo, ha invaso popoli, coscienze, costumi.
Toccherà alla Madre, solitaria figura ieratica, raccontare la storia, seguendo un filo che si dipana tra lucida follia e amara constatazione dei fatti, mentre i figli, sullo sfondo, vittime di un’orgia di potere e di violenza, si dibattono nel tentativo di una vita legata alla precarietà della sopravvivenza.